di Clara Mitola. La skyline di Bucarest è il tempo che passa. È una storia di morti, di liberazioni, trionfi e cadute. La storia dei vivi e del progresso, sotto i tuoi occhi di abitante o di passante abituale, lungo un casuale percorso quotidiano. Dall’università di Bucarest in Piața Universității (sector 3), seguendo il boulevard Magheru fino in Piața Romana (sector 1), lungo i muri, sui palazzi, sulle croci ortodosse piantate al suolo, sulle barriere di plastica che dividono i cantieri urbani dal resto del suolo percorribile, si snoda un lungo corridoio architettonico di cemento che racconta gli scontri di piazza (le croci per i morti), le polemiche “revisioniste” (il rispetto per gli eroi dell’89), l’incuria, l’affarismo e una certa smaccata ansia di Occidente.
La presenza degli investimenti esteri è così importante e invadente che puoi vederla a occhio nudo nei palazzi e nelle sigle luminose che hanno in cima, nelle decine di metri quadrati di pubblicità srotolati sulle facciate di altri palazzi (abitati normalmente da persone che, in sostanza, non possono più aprire le finestre), nel fatto che la presenza di un Mac Donald quasi ad ogni stazione della metro (vale a dire ogni chilometro e mezzo) è un evento scontato.
La città vive rapida anche attraverso i passaggi stretti e i cantieri che si aprono ovunque, costantemente, a cambiarle i connotati. È una corsa al rinnovamento e di corsa procede anche la maggior parte della gente, per lo meno quella che ce la fa. I bucureșteni sembrano appartenere ad una particolare tipologia di romeni. Parlano svelto e non si fidano dei tassisti (uomini di ogni sorta, taciturni, spiritosi, spaventosi e tutti affamati di soldi), sono concentrati, impegnati, imprevedibili. Disinteressati a chi gli passa accanto e pronti a slanci inaspettati. In apparenza, sembrano costituire un gruppo ancora coeso e educato a un sistema comune, unificante, quando non si frantumano nella solitudine individuale. La solitudine vive a Bucarest, a volte più che altrove.
Da quando sono qui, la domanda che più spesso mi viene rivolta è perché, perché mai da ovest trasferirsi ad est, rinunciare al benessere per risalire controcorrente fino al post-comunismo in via di sviluppo. Sono contromano nei flussi migratori scavati da un andirivieni est-ovest ventennale! La risposta di solito sconcerta italiani e romeni. La risposta è una socialità differente, più problematica ma anche più vera, più “umana”. Certo, questo non ti fa partire, però a volte ti fa restare. È incredibile pensare che la presenza o meno del benessere possa funzionare al contrario, come uno strano contrappasso in cui, banalmente, più miserabile è la tua esistenza e maggiore è il rispetto che hai per quella degli altri (naturalmente quando ne hai). Ma non è tutto, perché in questo caso, nella miseria sporca e basilare come non ne conoscevo prima, nel mutuo soccorso, sembra esserci la reazione o lo sgomento che si provano di fronte ai cambiamenti più che radicali avvenuti nell’arco di soli vent’anni. Qui lo scarto generazionale non è solo questione di numeri, riguarda l’essere nati o no “in libertà”: è del tutto normale che i figli non conoscano affatto il mondo dei propri genitori, perché è un mondo che non esiste più.
Qualcuno dice che la Romania post-comunista non ha più morale né spina dorsale. Altri pensano che le storture della dittatura non saranno mai raddrizzate, che sono endemiche, considerando i sistemi adottati, le promesse di cambiamenti non realizzati, la classe politica e dirigente che proviene dalle seconde e terze file del Partito Comunista Romeno, quando non dai ranghi militari. In generale è la Rivoluzione del 1989 il luogo in cui si sviluppa il dibattito intorno al regime e si prendono le misure di quello che è rimasto. Qualcosa è rimasto, già nel semplice rifiuto, nel parlarne o nel non parlarne.
Un paio di mesi fa, in uno dei tanti cinema di Bucarest, è stato proiettato “Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu” (regia di A. Ujică), vale a dire un documentario-collage di tre ore con filmati ufficiali e privati (perlopiù inediti) del conducator e della sua famiglia. Il filmato d’apertura mostra i coniugi di fronte al “tribunale” rivoluzionario, lo stesso che di lì a poco li avrebbe giustiziati. Ceaușescu inizia a parlare un romeno molto scorretto e l’intera sala ha cominciato a ridere. Il vero spettacolo è stata la reazione del pubblico. Anche al di fuori delle sale, se ti fermi a parlare con un passante o con la cuoca di una tavola calda, con un tassista o con il custode di un garage, “l’eredità” di Ceaușescu alla fine torna sempre, e non importa se prende le forme del rimpianto o dell’accusa. È un po’ come Casa Poporului, la Casa del Popolo, odierno palazzo del Governo (e anche sede del Mnac, il Museo Nazionale di Arte Contemporanea), l’antica residenza dei Ceaușescu. In qualsiasi punto di Bucarest ti trovi, se sei in alto, quasi di sicuro riuscirai a vederla, perché è al centro della città, perché è enorme e minacciosa, ingombrante e quasi indimenticabile.
(continua)