di Clara Mitola. Bucarest è una città multiforme, monolitica come un bloc socialista e inaspettata come una frana, impantanata, luccicante. Puoi solo amarla o odiarla perché qui non c’è spazio per l’accettazione passiva. Puoi intuirla. È caotica, esagerata, concentrata. Mi ha accolto con polvere e sole d’aprile, temperature inaspettate, colori saturi. Ci sono arrivata con una borsa di studio in traduzione letteraria e con una manciata di nomi e titoli quasi sconosciuti. Una lista vuota in una città ignota e terribilmente grande. L’impatto è stato elettrico, un assedio sensoriale e da dieci mesi vivo qui, in continuo adattamento e stupore.
Bucarest come capitale assomma e concentra in sé il buono e il cattivo dell’intera Romania, il nuovo che si avventa sul vecchio, uno stravolgimento rapido e violento come uno sparo. Dal sultanismo di Ceaușescu al capitalismo più aggressivo, dall’isteria anticomunista alla diffidenza anticapitalista, rimpianto e attesa del nuovo.
Una mescolanza di ideologie e di stratificazioni sociali tra la frenesia della gente e i vissuti individuali, impersonali, in una cornice nella quale la politica, la società e la vita quotidiana sanno ancora di vecchie abitudini
Essere un bucureștean, un cittadino di Bucarest, significa abitare probabilmente al decimo piano di un bloc, lavorare a ritmi occidentali con salario est-europeo, desiderare il cambiamento, modernizzarsi, “europeizzarsi” e poi tornare a casa, al tuo decimo piano, in un palazzo identico a quello precedente e a quello successivo, dove magari qualcuno ha rubato persino il contrappeso dell’ascensore e sei costretto a salire a piedi (gli ascensori romeni funzionano in modo differente da quelli italiani, cioè in base al peso e non alla chiusura delle porte).
Vivere come un bucureștean significa rendersi conto del fatto che spesso c’è un denominatore comune in ogni genere di questione, dall’urbanistica agli apparati statali, dalla burocrazia al randagismo, al modo di servire ai tavoli: la contraddizione. La frase “siamo in Romania” è accompagnata subito da un’alzata di spalle collettiva, come un’eco o un commento ai margini. Non si tratta solo dell’essere stranieri, perché a certe cose non ci si abitua mai, anche se sei romeno e ci sei nato: suntem în Româniă.
Bucarest non è una città facile e viverci significa fare i conti con diversità e brutture che offendono la vista, offendono i sensi e le abitudini dell’occidentale: qui i nervi scoperti sono radici latine, slave e turche fuse insieme in stabilità precaria e secolare (la lingua romena lo dimostra: grammatica latina di base, radici slave per parole che descrivono gli stati d’animo, inserti turchi per quello che ha a che fare con i soldi).
C’è uno strano equilibrio qui, un bilanciamento schizofrenico tra palazzi a vetri, case vecchie più di un secolo, comunismo e post-comunismo.
La Bella Èpoque bucureșteana, ma anche i quartieri di regime, costruiti tra gli anni ’60 e ’80 (Berceni, Aviației, Colentina, Rahova, Militari, etc.), le Mall. La storia della città è scritta, riscritta, costruita e demolita per tutta Bucarest, a strati. Tutto quello che è scampato alle manipolazioni architettoniche di Ceaușescu appartiene a un altro secolo, a un’altra Bucarest, ed è ingarbugliato, stretto e splendido (Strada Lipscani, Calea Victoriei, le ville di inizio ‘900 dei quartieri più vecchi come Cotroceni o intorno a Piața Romana), quando non sembra spuntato dal nulla o costruito a casaccio. L’impressione è che la città sia cresciuta autonomamente, come i denti del giudizio che possono spuntarti storti e confondere le simmetrie, e allora in una stessa strada è quasi normale trovare una villetta mezza distrutta in stile art nouveau addossata a uno scatolone di cemento di otto o dieci piani, costruito intorno a una chiesa e accanto al palazzo di una qualche multinazionale, in acciaio e cristalli, che domina tutto l’isolato successivo.