di Annalisa Marroni.* Dalla rivoluzione iraniana del 1979 in avanti, siamo stati abituati a percepire il medio oriente islamico come un luogo in cui il risveglio politico della religione, spesso descritto come fanatismo o fondamentalismo, ha assunto un ruolo centrale. Spesso, però, la realtà non corrisponde a quello che ci viene raccontato e le organizzazioni e i partiti di stampo religioso che hanno assunto un ruolo politico negli ultimi tempi hanno scelto di scendere a compromessi con i sistemi di tipo parlamentare e democratico. Da Hamas a Hezbollah, passando per i Fratelli musulmani e il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo turco, vediamo come le politiche attuate da questi partiti islamici non siano così estremiste come potremmo immaginare. Sappiamo che con il fallimento dei movimenti di sinistra, seguito alla sconfitta subita dai paesi arabi nel conflitto israelo-palestinese del 1967, il discorso politico in molti paesi del vicino oriente ha adottato un linguaggio islamico. Come sottolinea Sami Zubaida in “Law and Power in the Islamic World”, i moderni movimenti politico-religiosi islamici hanno adottato un percorso comune: essi operano all’interno di specifiche arene politico-nazionali con l’obiettivo di conquistare il potere, ma se da un lato il richiamo ai principi religiosi a cui si ispirano è fondamentale per la costruzione della propria identità, dall’altro la recente storia ci mostra che questi movimenti hanno scelto di condividere il lessico e le strutture organizzative con gli altri attori della società, anche quelli più laici. Gran parte dei movimenti che si rifanno all’islam, infatti, piuttosto che impegnarsi nella creazione di uno stato islamico hanno accettato il sistema esistente basato sulla competizione politica di stampo democratico tra i diversi partiti.
Questa nuova ondata politica dell’islam ha preso avvio da un evento di portata mondiale: la rivoluzione islamica in Iran guidata dall’ayatollah Khomeini. L’Iran, in cui la Repubblica islamica è stata istaurata tramite un referendum popolare, è l’unico paese in cui le frange religiose della popolazione sono riuscite a conquistare il potere e ad imporre un proprio sistema politico. Queste hanno creato un sistema teocratico che combina la figura dell’ayatollah, una sorta di sovrano non eletto, con l’apparato di uno stato burocratico. La forza coercitiva dell’élite clericale è riuscita per trent’anni ad imporre un rigido controllo in molti campi della società: dalla scelta del leader politico con l’istituzione del Consiglio dei Guardiani, al regime di austerità morale imposto dalla legge religiosa islamica. Eppure, per resistere così a lungo, i mullah hanno dovuto spesso scendere a compromessi con la società civile, come sottolinea Roger Owen, tanto da “rendere la vita quotidiana iraniana molto meno islamica rispetto a quella di altri paesi musulmani, in cui la posizione degli ulama o dell’establishment religioso, era assai meno istituzionalizzata”.
“In Iran – afferma Mark LeVine – la popolazione sta perdendo fiducia nel governo e sta creando una società parallela sulla quale il governo non ha la benché minima influenza. Se per la gente più povera ciò può significare affidarsi al mercato nero o grigio, per la popolazione relativamente benestante significa indossare abiti firmati sotto il chador, corrompere la polizia religiosa oppure organizzare imponenti “serate benefiche” nelle ambasciate occidentali, dove gli invitati possono divertirsi tutta la notte senza temere le irruzioni del Komites, visto che le ambasciate, dal punto di vista legale, sono spazi extraterritoriali. […] Tutti i giovani stanno spingendo i confini dell’identità iraniana verso quelli che una volta erano considerati i nemici in Occidente. La musica, la moda e la cultura in generale rappresentano il principale campo di battaglia nello scontro per l’anima iraniano.” La crisi di questo modello politico di stampo religioso è apparsa evidente negli ultimi anni in cui le proteste della società civile, catalizzate dal movimento dell’onda verde, hanno occupato la scena mediatica mondiale: ai mullah non resta che la repressione per imporre la propria volontà.
Hezbollah è un altro movimento sciita, nato durante la guerra civile libanese, che ha assunto un’importanza crescente nella sfera politica del paese. Nato come un movimento rivoluzionario che prendeva a modello lo sciismo iraniano, dal 1990 è diventato uno dei principali partiti politici libanesi, surclassando anche Harakat al-Amal, un gruppo politico sciita di stampo più laico sorto nel 1975. L’obiettivo che si prefiggeva Hezbollah al momento della sua formazione era la trasformazione del Libano in uno stato islamico, ma questo intento fu presto abbandonato con la fine della guerra civile. Già alle elezioni del 1992 Hezbollah si era organizzato in un partito politico dando così il suo sostegno al pluralismo democratico basato sulla coesistenza con le altre comunità religiose libanesi. Attualmente Hezbollah rappresenta una delle principali forze politiche del paese, come dimostra la sua partecipazione con diversi ministri sia al governo del 2005 che a quello neo eletto del 2009. La sua forza risiede nel continuare ad essere un movimento di opposizione che assiste quotidianamente la comunità sciita, una delle più povere del Libano. Hezbollah ha, infatti, promosso delle politiche economiche e sociali tese a migliorare le condizioni dei membri più poveri della comunità, investendo nella sanità e nell’educazione; inoltre, ha ricostruito i sobborghi del sud del Libano distrutti in seguito agli scontri con Israele, l’ultimo dei quali nel 2006, ed è riuscito a non delegittimare la propria posizione di partito politico ufficiale da un lato e di movimento politico-religioso dall’altro. Restano dei nodi da sciogliere circa la propaganda e il rifiuto di disarmarsi nel perenne conflitto con Israele, ma resta il fatto che Hezbollah è riuscito a creare in Libano uno stato nello stato, come ricorda il titolo di un’opera di Walid Sharara, in grado di fornire alla popolazione locale i servizi che lo stato centrale, dal 1970, non è stato più in grado di fornire.
Poco distante dal Libano, nella martoriata terra di Palestina, è un partito islamico di stampo sunnita a governare la vita degli abitanti di Gaza. Hamas, acronimo del Movimento di resistenza islamico, ideologicamente affiliato ai Fratelli musulmani, è riuscito dalla fine degli anni ottanta a radicarsi profondamente nella popolazione palestinese accrescendo in questo modo la propria influenza. Nel 2006, Hamas ha vinto, in maniera regolare, le elezioni nella striscia di Gaza e, da allora, ha mantenuto il controllo in questa zona. L’opposizione della comunità internazionale nei confronti di questo movimento, considerato una minaccia all’esistenza di Israele e un pericolo per i suoi ideali islamici, non trova, però, riscontro nell’opinione degli abitanti. Come riporta David Rose in un articolo apparso su Foreign Policy, Hamas non intende realizzare uno stato islamico: “Gli abitanti di Gaza sono conservatori, e la maggior parte di loro condivide i principi della sharia, ma non hanno bisogno o non vogliono che il loro stato sia governato da questa legge religiosa”. Sebbene, infatti, siano state approvate delle ordinanze restrittive, anche nei confronti delle donne, come il recente divieto di fumare il narghilè nei locali pubblici, Rose sottolinea che “la maggior parte delle donne indossa il velo, ma , sorprendentemente, non tutte”. La popolazione di Gaza non dovrebbe essere punita per aver sostenuto la vittoria di Hamas, eppure dopo l’operazione Cast Lead condotta da Israele nel dicembre del 2008, la situazione nella striscia si aggrava di giorno in giorno. “Il problema non sono tanto le restrizioni imposte alla popolazione, quanto la totale limitazione degli spostamenti e delle opportunità per le persone”. Una situazione sulla quale la comunità internazionale dovrebbe riflettere.
I Fratelli musulmani sono un movimento fondato in Egitto da Hasan al-Banna nel 1928. La loro dottrina è basata sull’inclusività dell’islam, cioè la possibilità per un musulmano di evitare il contatto con le istituzioni occidentali attraverso l’esclusiva frequentazione dei luoghi islamici del proprio paese. Dopo la seconda guerra mondiale essi iniziarono ad entrare nell’arena politica. Inizialmente strumentalizzati da Nasser per ottenere il potere, una volta raggiunto questo obiettivo, furono incarcerati. A partire dal 1969, i Fratelli Musulmani abbandonarono l’ipotesi della lotta armata. Con Sadat ottennero una maggiore libertà d’azione, ma un gruppo ristretto di attivisti si staccò dall’organizzazione, considerata troppo accondiscendente, per partecipare a una grande varietà di organizzazioni militanti che volevano rovesciare il regime di Sadat finché uno di loro riuscì ad ucciderlo nel 1981. Da quando Mubarak è al potere i Fratelli musulmani, a causa dell’escalation di violenze rivendicate da gruppi estremisti, sono stati fortemente limitati nella loro azione. Sebbene sia loro permesso di partecipare alle elezioni, in alleanza con i partiti laici di opposizione, sono trent’anni, ormai, che in Egitto vigono le leggi di emergenza secondo le quali, come ricorda Campanini, “chiunque sia sospettato di terrorismo (e non viene specificato in cosa il terrorismo consista), può venire perseguito da tribunali speciali. Nel mentre vengono abolite l’habeas corpus e le garanzie individuali dello stato di diritto”.
Gli elettori hanno dimostrato diverse volte la loro capacità e volontà di eleggere delle maggioranza parlamentari islamiche. I Fratelli musulmani, con la decisione di partecipare alla competizione elettorale hanno implicitamente accettato l’autonomia e la laicità dello spazio politico caratterizzato dal ricorso alle tecniche e alle categorie giuridiche e politiche della scena parlamentare moderna. In Egitto, dove secondo l’articolo 5 della costituzione non possono presentarsi come esponenti di un partito islamico, i membri della fratellanza hanno adottato lo stratagemma di presentarsi come candidati indipendenti riscuotendo un notevole successo elettorale visto che occupano 88 dei 444 seggi dell’Assemblea Popolare. Sebbene questo movimento stia vivendo un periodo di turbolenze e la sua presa sulla popolazione sia in declino, la forza del partito risiede nella capacità di impegnarsi nell’apparato educativo e militare e nella vita associativa attraverso i sindacati, le leghe di difesa dei diritti dell’uomo e le associazioni caritatevoli.
La Turchia può essere considerata un regime islamico, visto che i leader del paese provengono da partiti di stampo religioso, come Necmettin Erbakan prima e Recep Tayyib Erdogan oggi. I membri del partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), nel 2001, hanno sperimentato, come la maggior parte degli altri movimenti islamici in Medio Oriente, un cambiamento di strategia: hanno abbandonato le mire di creare uno Stato islamico e la volontà di adottare la legge sharaitica come legge ufficiale e hanno accettato un sistema fondamentalmente non islamico, ma aperto al miglioramento della società attraverso la partecipazione diretta al processo legislativo e una maggiore attenzione nei confronti dell’elettorato religioso. La Turchia ha conosciuto con Kemal Ataturk un processo di laicizzazione molto rapido a partire dagli anni venti. Il ruolo rivestito dai militari, garanti del sistema laico che governa il paese, insieme alla laicizzazione imposta dall’alto, non corrispondono ai sentimenti dell’elettorato che ha dimostrato a diverse riprese, l’ultima nel 2007, la preferenza per un governo di stampo islamico.
LeVine sottolinea, a proposito, che “il fatto che i leader turchi abbiano deciso per una piena occidentalizzazione non significa che la maggioranza della popolazione ne sia mai stata convinta. […] Al di fuori delle élite, la maggioranza dei turchi, nonostante desideri sviluppo e progresso proprio come in Occidente, ha dovuto combattere per mantenere le sue tradizioni culturali e religiose, e fin dalla nascita della Repubblica, sebbene le istituzioni religiose siano sottoposte al controllo dello Stato, la religione è rimasta una delle poche aree vitali che hanno consentito alle persone di conservare identità e valori che non fossero diretti dall’alto. Non può sorprenderci che dopo decenni di controllo del sistema politico da parte dei militari i turchi si siano rivolti ai partiti islamici negli anni Ottanta e Novanta, non appena, cioè, si è data una minima apertura del sistema politico”. Questa re-islamizzazione della società non ha permesso, però, ai sentimenti antieuropei di attecchire: “per la stragrande maggioranza dei turchi, infatti, il più importante obiettivo economico, politico e culturale, sia nel passato recente che nel futuro prossimo, è l’entrata della Turchia nell’Unione Europea”.
Con questa breve panoramica abbiamo voluto mostrare le diverse sfaccettature di un mondo islamico in continua evoluzione, in cui i movimenti di stampo islamico riescono ancora a raccogliere un’ampia fetta di consensi. Eppure l’adesione all’islam non coincide sempre con il fanatismo religioso, come mostra l’esempio turco. Gli altri movimenti considerati: Hamas, Hezbollah e i Fratelli Musulmani vengono percepiti dal mainstream occidentale come estremisti, spesso in relazione alle loro posizioni nei confronti dello Stato d’Israele o al timore che vogliano instaurare uno stato islamico. Eppure, nella maggioranza dei casi, questi timori sono infondati poiché questi movimenti hanno, ormai da tempo, accettato le regole della competizione elettorale di stampo parlamentare. Continuare ad etichettare questi movimenti come terroristi può contribuire solo ad avvicinare la popolazione che li sostiene verso posizioni più radicali. L’Iran resta l’unico paese in cui i religiosi sciiti sono riusciti ad instaurare una teocrazia, ma i recenti eventi legati alle proteste studentesche mostrano che una buona parte della società iraniana non si identifica nelle politiche governative e che vi sono degli spazi di manovra per dare vita ad un cambiamento radicale.
(Annalisa Marroni è Senior Research Fellow di QF)