Questioni di Frontiera
di Annalisa Marroni.* Ayaan Hirsi Ali è una scrittrice somala che, dopo essere arrivata in Occidente, ha deciso di abbandonare la religione musulmana e di combatterla con tutte le sue forze. Dipinta come una donna emancipata da certa stampa occidentale, ha iniziato a produrre libri e film che denunciano l’arretratezza dell’islam, una religione, a suo dire, violenta e maschilista. In questo modo è diventata, in breve tempo, un’esponente di spicco del vasto fronte anti-islamico in America: una ex-musulmana al servizio dello scontro di civiltà.
Un mese fa è uscito, in America e in Inghilterra, il suo ultimo libro: “Nomade”, edito in Italia da Rizzoli. Il sottotitolo della versione in lingua inglese: “Dall’Islam all’America: un viaggio personale attraverso lo scontro di civiltà” la dice lunga sulle posizioni della giovane scrittrice che è diventata, negli ultimi anni, un’accanita sostenitrice dei valori occidentali in chiave anti-islamica. Le tristi vicende personali dell’autrice hanno contribuito notevolmente a formare la sua visione.
Nata in Somalia durante la dittatura di Siad Barre è stata costretta a diversi spostamenti sin da bambina: ha vissuto in Kenia, Etiopia e Arabia Saudita, prima di rifugiarsi in Olanda nel 1992 dopo essere fuggita da un matrimonio combinato che le era stato imposto dalla famiglia. Eletta al parlamento dell’Aia nel 2003, ha in seguito collaborato con Theo Van Gogh alla realizzazione del film “Submission” sulle violenze subite dalle donne musulmane. In seguito all’assassinio del regista è salita alla ribalta della scena mediatica internazionale per aver ricevuto diverse minacce di morte da parte di fanatici musulmani. Recentemente ha preferito abbandonare l’Olanda per gli Stati Uniti, dove adesso lavora.
Hirsi Ali è una donna che conduce una battaglia personale: le sofferenze e le difficoltà che ha dovuto affrontare durante la sua gioventù plasmano e influenzano la sua visione del mondo e dell’islam. Spesso e volentieri, leggendo le sue opere, si nota come il coinvolgimento personale le impedisca di affrontare questioni delicate come il ruolo delle donne nell’islam con il dovuto distacco. I suoi scritti sono pieni di accuse contro l’islam a cui manca, però, la profondità d’analisi necessaria per trasformare le sue critiche in efficaci istanze di cambiamento. Le pratiche da lei descritte come l’infibulazione, la reclusione, l’obbligo del burqa, la sottomissione forzata o le lapidazioni, pur essendo delle usanze che affliggono le donne nei paesi musulmani, non sono delle pratiche islamiche. Esse, infatti, non hanno un fondamento testuale nel Corano ma derivano da retaggi culturali dovuti alle tradizioni locali. È il caso dell’infibulazione che, pur essendo una pratica diffusa in molti paesi a maggioranza musulmana, non è affatto menzionata dal Corano; o del velo integrale, che è un’estremizzazione dell’invito coranico a coprirsi le parti belle.
La scrittrice, convinta delle sue posizioni, arriva fino a sostenere che l’islam non sia una religione per donne, come evidenziato nel sottotitolo alla versione italiana del libro. È indubbio che nell’islam, come nella maggior parte delle religioni monoteiste, il ruolo riservato alla donna sia marginale e che spesso continuino ad essere giustificati in nome della religione abusi nei confronti del gentil sesso. Tutto ciò è inaccettabile ma è inutile e quanto mai dannoso etichettare un’intera religione come misogina e violenta. L’islam non è monolitico e proprio per questo non viene né interpretato né vissuto nella stessa maniera nel mondo intero. Ciò che rende l’islam così vario e multiforme è l’assenza di un clero che codifica e dirige le pratiche religiose: l’unica autorità nell’islam sunnita è il Corano che, insieme alla Sunna (gli atti e i detti del Profeta Maometto) contiene i principi ai quali il musulmano si deve attenere per essere un buon fedele. Ad eccezione dei versetti chiari, che riguardano soprattutto il diritto di famiglia, per la maggioranza si tratta di versetti che non prescrivono delle regole di condotta specifiche ma vengono lasciati all’interpretazione delle diverse scuole giuridiche.
Molto resta ancora da fare ma nei libri di Hirsi Ali non vengono menzionati i cambiamenti che scuotono i paesi a maggioranza musulmana e che, in alcuni casi, hanno permesso alle donne di migliorare le proprie condizioni sociali: ne è un esempio la Mudawwana marocchina (riforma della legge di famiglia del 2004) o la nascita del femminismo islamico. È impensabile che una scrittrice che si pone l’obiettivo di denunciare la situazione delle donne nell’islam sorvoli su certi argomenti. Le sue posizioni da ex-musulmana la rendono cieca nei confronti di tutti i tentativi di miglioramento che iniziano ad essere realizzati.
Attraverso i messaggi veicolati nei suoi libri Hirsi Ali non fa altro che acuire le incomprensioni legate ad un’immagine sbagliata dell’islam. Nella prefazione di “Nomadi”, infatti, Hirsi Ali non si limita ad attribuire all’islam la colpa di tutte le esperienze negative che ha vissuto: dalla povertà al tribalismo. Descrivendo le difficoltà incontrate da molti immigrati che, giunti in Occidente, si ritrovano in una realtà completamente diversa da quella in cui hanno sempre vissuto, arriva ad affermare che gli ideali islamici sono totalmente incompatibili con quelli occidentali. In questo modo, però, non fa altro che dare nuova linfa al paradigma dello scontro di civiltà tanto caro all’American Enterprise Institute, il think-tank americano dove lavora.
L’islam non è uniforme ma è una religione viva che si modifica e si modella a seconda delle realtà con cui si incontra. Restano dei nodi da risolvere, delle pratiche da eliminare, delle interpretazioni della religione più radicali che mal si conciliano con i valori e il bagaglio culturale occidentale ma è troppo semplicistico catalogare la fede di più di un miliardo di persone come violenta e misogina. L’atteggiamento della scrittrice somala di ergersi a paladina dell’Occidente contro l’oscuro e arretrato islam, oltre ad essere molto dannoso, non serve a molto. In questo modo, infatti, Ayan Hirsi Ali non agevola un cambiamento nel modo in cui l’islam viene erroneamente interpretato ma, dando man forte all’immagine stereotipata dell’islam, si muove come una pedina nelle mani dell’establishment politico occidentale senza contribuire a migliorare la comprensione reciproca.
(Annalisa Marroni è uno dei ricercatori di Questioni di Frontiera)