Questioni di Frontiera
di Annarita Favilla. Seppure a distanza di quattro anni dalla sua uscita nelle librerie, è ormai impossibile leggere di “Gomorra” nei soli termini di una discussione letteraria. Da un lato, il primo romanzo di un ventisettenne che dà forma a un genere di difficile definizione; dall’altro, un’opera che diventa immediatamente “caso editoriale”: in sintesi, un libro destinato a trascinare il lettore in un “Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra”, come recita il sottotitolo, scritto da un giovane freelance campano e pubblicato da Mondadori. Se le dinamiche editoriali e mediatiche si sovrappongono alla natura letteraria e alla forza civile della scrittura di Saviano, è il caso di svelare e di analizzare il meccanismo che ha permesso l’intersezione dei due piani. È quanto Alessandro Dal Lago tenta di fare nel suo pamphlet, al di là di probabili forzature e di (inevitabili e) sterili ripercussioni mediatiche. Ed è un meccanismo che chiama in causa la sinistra italiana. Perché se la gente santifica e pende dalle labbra delle icone mediatiche, sentendosi così mondata dalla sua responsabilità civile, dipende soprattutto dal fatto che tutti coloro (intellettuali, sociologi, giornalisti, editori) che avevano i mezzi, in tutti questi anni, per scardinare “l’effetto-icona”, e quindi ovviare alle strumentalizzazioni politiche dei “personaggi” (Saviano come tanti altri), non hanno fatto abbastanza su questo fronte.
Che si voglia porre l’attenzione sul ‘libro’ , e quindi sul suo contenuto, piuttosto che sul ‘prodotto editoriale’ – cioè sul contenuto della sua forma -, resta il fatto che in pochi mesi Gomorra ha raggiunto la cima delle classifiche con 2,5 milioni di copie vendute in Italia, e lì è rimasto per lungo tempo, guadagnando numerosi riconoscimenti letterari in Italia ma soprattutto all’estero e la traduzione in 52 lingue e altre 2milioni di copie vendute nel mondo (il libro è finito col diventare best seller in 12 pesi). Da quel momento, Roberto Saviano entra nel circuito mediatico, e il suo nome e il suo volto acquistano notorietà pubblica e vengono inevitabilmente associati, nella rappresentazione che i media stessi promuovono, alla sua denuncia di forte impatto del Sistema-Camorra. Così, in chi leggerà direttamente il romanzo, o presso il pubblico dei lettori e presso l’opinione pubblica in generale, ecco che si viene a creare quell’immagine di Saviano tutt’uno col suo Gomorra.
“Il caso Gomorra” diventa automaticamente “il caso Saviano”, a sottolineare giustamente come in chi legge Gomorra, proprio per come narrativamente è stato costruito, possa scattare il meccanismo di identificazione col ‘narratore’ che si propone nelle vesti di colui che cerca di stanare il male nascosto nell’ombra, per portarlo alla luce. Una sana e attenta discussione critica sui complessi meccanismi e sui piani narrativi che – più o meno intenzionalmente – Saviano ha utilizzato in Gomorra, sul suo maggiore o minore valore letterario rispetto ad altri libri meno pubblicizzati, nonché su che tipo di romanzo sia Gomorra e su quali possano essere oggi in Italia l’importanza e i limiti di un genere che confina con l’inchiesta e la denuncia giornalistica, è una discussione lecita e auspicabile, perché, per lo meno, questo tipo di contributo attesterebbe l’esistenza di una vita culturale e letteraria indipendente e vitale.
A giudicare dalle ultime querelle, invece, si stenta ad assumere il compito di guardare le cose nella loro complessità e durata, di spiegare e squadernare gli intrecci tra il potere della comunicazione politica e il mondo editoriale-mediatico-letterario contemporaneo, di cui senza dubbio Gomorra e Saviano rappresentano un emblema.
Al di là di ogni personalismo, bisogna ammettere che tutti abbiamo le nostre responsabilità, sia chi non si informa abbastanza e preferisce una spiegazione più facile e rassicurante senza porsi altre domande; sia chi direttamente immette quelle spiegazioni nello spazio mediatico. Perché è esattamente questo che permette all’Italia di non crescere culturalmente.
Ma ciò non è imputabile certamente a Saviano, o comunque non può essere una responsabilità completamente rovesciata sulle sue spalle solo perché ha avuto successo. Saviano dovrebbe essere considerato uno scrittore, un giornalista indipendente da ogni schieramento già precostituito di idee; uno che fa il suo lavoro e lo fa bene, non l’unico, ma uno la cui opera va apprezzata per questo. Saviano subisce il ‘Savianismo’; al di là degli ammonimenti di Ingroia e di Dal Lago non è difficile pensare quanto Saviano abbia voglia di “salvarsi dal suo personaggio”.
Il fatto è che, per usare una frase abusatissima, qui quasi nessuno pare abbia davvero voglia di “guardare la luna anziché il dito”. Gli intellettuali, le opinioni libere – quelle sempre condannate a morte – proprio non le riusciamo a riconoscere, custodire e difendere inconfutabilmente come una ricchezza civile.
Roberto Saviano non ha scoperto la camorra, nessuno può essere così stupido da pensarlo, ma ha il grande merito di aver contribuito a smuovere le coscienze italiane e mondiali su una realtà che prima dell’uscita del suo libro era conosciuta solo negli ambiti ristretti delle indagini antimafia e di alcune cronache campane. Ha il merito di “aver messo gli occhiali” all’opinione pubblica, come suggerisce l’immagine di Anna Maria Ortese in “Il mare non bagna Napoli”, quando la piccola Eugenia indossa finalmente un paio di occhiali e guardando tutto intorno il suo cortile comincia a tremare e a vomitare. Questo è ciò che dovrebbe fare un intellettuale. Roberto Saviano, che piaccia o no, è un ragazzo che ha il merito di saper parlare ai ragazzi come lui; è capace di chiarire loro le situazioni, di andare al nodo centrale delle cose, e di infondere fiducia nelle possibilità che ognuno ha, e deve avere, per contrastare l’omertà attraverso il potere della parola.
Il suo è un gesto, è la scelta di una strada, un modo per stare al mondo. E questo non fa di lui un grande Eroe, ma ne fa un esempio significativo. Un esempio diverso da Borriello. Se non si deve parlare di letteratura, che almeno si parli di questo. E se si vuole fare gli anti-Eroi fino in fondo, allora che si faccia una battaglia per eliminare il continuo (ab)uso di tutte le etichette popolari e populiste mediatiche, quelle di Saviano e quelle di Borriello, perché chiunque partecipa alla diffusione delle informazioni e delle idee nel nostro paese ha il dovere di comprendere e far comprendere, non di puntare il dito. Infine, bisognerebbe guardare ai fatti e non agli Eroi; piegare i giochetti mediatici tanto di moda per nuove proposte di senso.
Bisogna parlare di Gomorra, bisogna che Saviano parli, bisogna che i giornali maggiori supportino la lotta quotidiana dei giornalisti locali, bisogna che i giornalisti locali continuino le loro lotte, bisogna parlare dei libri meno noti pubblicati da giornalisti e magistrati al Sud; c’è bisogno di denunciare, di opporsi al divieto delle intercettazioni, di prendere atto ogni giorno della deriva della nostra classe dirigente, di autorappresentarci poiché nessuno più ci rappresenta, di guardare allo scacchiere sempre in movimento delle sfide economico-politiche mondiali, di pensare con la propria testa. Non c’è proprio bisogno, in questo momento, di impegnarsi tanto nel delegittimare chi invece ha denunciato facendo nomi e cognomi. Fino a prova contraria qui chi continua a fare affari è la mafia.