Questioni di Frontiera
di Maria Teresa Lenoci*. I neocon americani sono preoccupati dagli sviluppi dei rapporti fra il Presidente Obama e il primo ministro israeliano Netanyahu. Prendiamo l’ultimo incontro avvenuto a Washington, a porte chiuse, con l’americano che perso la pazienza davanti al muso duro di “Bibi”, in un’escalation di pregressa e fondata conflittualità personale e politica tra i due. Dell’altro ieri, la notizia che un altro vertice è saltato dopo l’assalto dei commando israeliani alla nave turca Marmara. Occorre fare un passo indietro. Uno dei temi principali della campagna elettorale di Barack Obama (come anche di Hillary Clinton) alle elezioni presidenziali del 2008 è stato quello di rilanciare il processo di pace israelo-palestinese. Sul fronte israeliano Obama aveva pensato di passare dal “congelamento” al “contenimento” dello sviluppo delle colonie. A marzo, quando il vicepresidente Joe Biden si reca in visita in Medio Oriente, Israele annuncia di aver intrapreso la costruzione di 1600 nuove unità abitative a Gerusalemme Est. Una vera e propria provocazione.
Qualche settimana dopo, quando il premier isreaeliano si reca in visita alla Casa Bianca, il presidente americano tiene con lui solamente un incontro a quattr’occhi. Niente conferenza stampa congiunta, niente giornalisti. Anzi, voci di corridoio sostengono che il presidente americano sia stato scontroso con il rappresentante del governo israeliano e l’abbia piantato in asso per andare a cenare con la sua famiglia. Tutto questo è stato preso come un affronto dalla comunità ebraica statunitense, come sottolinea John Podhoretz dalle colonne di Commentary. L’editorialista ritiene che la sua profezia si stia auto avverando, e cioè che l’epoca di Obama sarà colma di tensioni sul fronte mediorientale ben al di sopra del livello raggiunto dall’amministrazione Bush. L’atteggiamento un po’ snob del primo presidente afro della storia americana colpisce e si è esteso in passato anche ad alleati del calibro di Sarkozy, Berlusconi e Brown. La questione israeliana, però, sembra toccare nel profondo la sensibilità obamiana, tanto che il presidente sembra non aver più molta fiducia nelle decisioni intraprese da Israele.
Un altro segnale che tiene in allerta gli ebrei è il discorso che Obama pronunciò all’Università del Cairo nel giugno del 2009. L’apertura al mondo musulmano in genere e palestinese in particolare (“L’America non volgerà le spalle alla legittima aspirazione dei palestinesi alla dignità, a un’opportunità, a uno stato loro”), espressa sempre rispettando la politica della mano tesa e proponendo la soluzione “due popoli, due stati”, non piace a Israele. Quest’ultimo, però, non può al contempo permettersi il lusso di perdere il suo più grande alleato, gli Usa appunto, dato che le sue quotazioni nei confronti di molte altre potenze mondiali sono calate. La mappa degli accordi geostrategici ad oggi, quindi, sta tutta nella tessitura di una sottile diplomazia, in cui uno strappo un po’ più forte sarebbe molto difficile da ricucire.
(* Maria Teresa Lenoci è uno dei ricercatori di Questioni di Frontiera)