di Annalisa Marroni*. Esiste un genere della saggistica, in voga soprattutto presso gli scrittori anglosassoni, che ha visto aumentare le vendite dopo l’11 settembre 2001. Si tratta dell’Eurabismo, il filone inaugurato dalla scrittrice Bat Ye’or e ripreso in Italia da Oriana Fallaci che ha dato vita ad una “strampalata” teoria geopolitica. Nei prossimi decenni, l’Europa, al centro dei flussi migratori provenienti dai paesi a maggioranza musulmana, sarebbe destinata ad essere sopraffatta dall’Islam e a venire inglobata in una più vasta unità territoriale comprendente gli Stati della Lega Araba. Perno di questa teoria è il timore verso la crescente presenza delle minoranze musulmane in Europa che vengono descritte, dagli autori del genere, come minoranze incoercibili e culturalmente diverse, nonché in contrasto con i valori fondanti dell’identità europea.
Di fronte alla vacillante e fragile Europa, i musulmani appaiono coesi e uniti, decisi a conquistare l’Occidente e a distruggere l’imperialismo americano dopo essersi ormai insediati stabilmente nelle capitali europee: da Parigi a Berlino, da Londra e Oslo, una presenza massiccia e sempre più tangibile. Eppure l’immagine stereotipata dell’immigrato che rifiuta di integrarsi in nome di una dogmatica fede nell’islam, circondato da numerosi piccoli futuri ferventi musulmani, non riesce a cogliere la reale situazione dell’islam in Europa.
È innegabile che la forte presenza di immigrati di fede islamica abbia modificato il quadro della popolazione europea: i musulmani in Europa sono ormai circa 15 – 20 milioni di persone. Si tratta di una conseguenznaturale e inevitabile nell’era della globalizzazione: il mélange culturale, dovuto ai flussi migratori, deve essere visto come una risorsa e non come una minaccia alla nostra identità. Purtroppo la strada della convivenza pacifica è ancora lontana: all’immagine del militante islamico trasmessa dalla stampa di tutto il mondo, in ultimo quella di Faisal Shahzad, responsabile del fallito attentato a Times Square, corrispondono delle politiche degli Stati europei che mirano alla divisione più che all’integrazione. Ne è un esempio la recente decisione del parlamento belga di votare all’unanimità il divieto di portare il velo integrale nei luoghi pubblici; il provvedimento, in discussione anche in Francia, crea invece nuove barriere e rende, in questo modo, il velo integrale un simbolo di identificazione ancora più attraente.
Ma le sfide dell’integrazione non si limitano alle immagini trasmesse dai media o alle discussioni in parlamento. Oltre la notizia che fa spettacolo, oltre le esasperazioni del quotidiano da parte di certa letteratura esiste un Islam in Europa che non fa notizia. Un Islam più silenzioso perché non costituisce una fonte di minaccia, ma è la testimonianza tangibile della volontà di molti musulmani di definirsi europei pur preservando la propria identità religiosa. Si tratta di un processo di riflessione e di ridefinizione che coinvolge i musulmani presenti in Europa e che si basa su una rilettura delle fonti, Corano e Sunna, alla luce del mutato contesto storico e sociale.
Le nuove circostanze in cui vivono i musulmani in Europa hanno indotto i giuristi musulmani ad interrogarsi sulla necessità di fornire delle linee guida per regolare la vita del musulmano alla luce della nuova realtà sociale. Con questo scopo nasce la fondazione del Consiglio Europeo per le Fatwa e la ricerca, con sede a Dublino, il cui presidente, Yusuf al-Qaradawi, è tra i più importanti giuristi impegnati nella definizione di una nuova branca del diritto islamico, detta “diritto delle minoranze musulmane” (fiqh al-aqaliyyāt), volta a regolare la vita dei musulmani residenti nei paesi non islamici. Si tratta di un fenomeno recente: solo negli ultimi vent’anni i problemi delle minoranze musulmane in Occidente hanno iniziato a suscitare l’attenzione dei dottori della legge, ma non per questo è da ritenere meno importante.
Gli studiosi dell’islam stanno cercando di offrire risposte diverse e originali per aiutare i musulmani all’estero ad affrontare le difficoltà che incontrano nella vita quotidiana (regole alimentari, abbigliamento, luoghi di culto,..) evitando, così, di avvicinare queste persone ai gruppi più radicali. A favore di questa linea troviamo Tariq Ramadan, il famoso islamologo ginevrino diventato negli ultimi anni il portavoce dei musulmani che vogliono vivere in Europa senza rinunciare alla propria fede. Le sue idee sono state riprese dalla Carta dei musulmani d’Europa firmata nel gennaio del 2008 da ben oltre quattrocento associazioni che fanno riferimento alla Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa. Nella Carta si sottolinea la necessità per tutti i fedeli di rispettare le regole del culto islamico, in conformità al Corano e alla Sunna, spogliandole, però, delle pratiche culturali proprie dei diversi paesi d’origine. Questi musulmani, pur sentendosi parte integrante della Umma (comunità) islamica, danno la priorità ai loro doveri di cittadini europei rispettando le leggi e le autorità degli Stati in cui vivono. Allo stesso tempo, però, sentono la necessità di un coinvolgimento positivo nella vita politica e sociale esercitando il diritto di voto, impegnandosi nel dialogo interreligioso e lottando per il riconoscimento dei loro diritti.
Il compito degli Stati europei è proprio quello di aprire un dialogo con questi interlocutori affinché non si concretizzi il disegno di un’Europa islamizzata, ma si realizzi la piena integrazione dell’islam nel quadro europeo. Concludendo con le parole di Jean Baubérot: “Le religioni si trasformano attraverso un aggiornamento interno e non tramite una sorta di repressione esterna, che al contrario mette solo tensione rendendo il conflitto più difficile. Bisogna lavorare in un modo più dolce, più dialogante, senza forzature, solo così si può sperare in una nascita di un islam europeo minoritario, che potrà rinnovare l’islam nella sua interezza, invitandolo a porsi delle domande nuove”.
(Annalisa Marroni è una dei ricecatori di QF)