Questioni di Frontiera
di Beatrice Fiaschi*. Michael Herzfeld, antropologo di fama mondiale e insegnante presso la Harvard University, ha tenuto una conferenza per l’Università di Tor Vergata, parlando di fieldwork, cioè del lavoro sul campo che ha cararatterizzato il suo metodo di ricerca. Inizia con una riflessione generale sul senso della ricerca antropologica: “Oggettivo e soggettivo sono categorie inventate, sono convenzioni. L’antropologia le abbatte: l’altro studiato va a coincidere con noi che lo studiamo, in una sorta di osmosi identitaria. Se è meglio non coinvolgersi, allora si disporrà di una quantità inferiore di dati”, e prosegue spiegando le connessioni tra antropologia e identità: “Era scritto nel mio ambiente che diventassi un antropologo. Io sono britannico e ho vissuto in una famiglia bilingue, dove si parlava inglese e tedesco e si praticava una religione minoritaria rispetto a quella di Stato. Mi sono sempre interrogato sulla mia identità”.
Herzfeld ha lavorato molto in Grecia, in Thailandia e anche in Italia. Consiglia sempre ai suoi studenti di iniziare con un’esperienza all’estero, in un contesto poco noto e lontano da quello abituale, per mettersi effettivamente in gioco: “Quando sono andato a lavorare in Grecia non capivo una parola di quello che dicevano, il primo ostacolo per il fieldworker è sempre la lingua. Ma la cosa interessante è proprio questo percepire le cose come estranee e familiari al tempo stesso, sentirsi esterni ma partecipanti, portare avanti una osservazione partecipata. Il nuovo ambiente in cui si lavora, in cui tutto è inedito, sfida l’antropologo a capire persone che sembrano non condividere i suoi stessi presupposti, apre la via ad un contatto profondo con l’altro e con se stessi”.
Ma la ricerca sul campo, certamente interessante e travolgente, ha anche momenti difficili e, perchè no, delle sconfitte. Spiega Herzfeld: “Ci sono momenti molto noiosi, per cui l’unica soluzione è armarsi di grande pazienza, c’è da costruire lentamente un rapporto di fiducia con chi ti vede ’straniero’ e magari crede tu sia una spia o un agente in borghese. Il fallimento del progetto iniziale sicuramente delude, ma va interpretato come un dato, come una svolta inattesa sulla strada del successo finale”.
Molto significativa anche un’ultima riflessione del Professor Herzfeld sulla sua esperienza in Thailandia, che condensa in sé tutto il senso profondo del lavoro sul campo, una magica, anche se controversa, fusione con l’ambiente e viceversa: “Lavoravo in Thailandia ma non sapevo una parola di thailandese. Dopo un po’ di tempo, in maniera del tutto naturale ho appreso la loro particolare gestualità e tutte quelle norme di comportamento non scritte che sono però incarnate nel corpo e nello spirito autoctono. Non mi ero accorto di condividere il non verbale con loro, finchè un giorno al mercato un uomo mi disse che sembravo thailandese anche se parlavo poco e male la loro lingua e non avevo i tratti somatici del thailandese. Ma ne padroneggiavo la gestualità”.
(Beatrice Fiaschi ha partecipato ai Seminari di QF su frontiera e identità)