di Maria Teresa Lenoci.* Tutto ha avuto inizio durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008. L’allora senatore dell’Illinois Barack Obama fu tacciato dal rivale repubblicano John McCain di farsi promotore di idee “socialiste” . Dopo un tira e molla durato 14 mesi, a marzo Obama è riuscito a far approvare al Congresso la riforma del sistema nazionale sanitario. Una versione meno ambiziosa dell’opzione pubblica tanto ambita dal presidente, che avrebbe tolto alle compagnie di assicurazione private il monopolio del settore per consegnarne la gestione nelle mani dello Stato, ma comunque così incisiva da essere definita una “socializzazione delle cure mediche”. Per qualcuno Obama sta approntando un governo “all’europea”, altri suggeriscono che stia inaugurando una nuova era di “democrazia sociale”. Ma che tipo di socialista è?
Guardiamo alle statistiche. Gli americani non difendono più a spada tratta il capitalismo, e soprattutto non sono per nulla impauriti dal socialismo. Ovvero quello che la gente chiede è un “capitalismo più regolamentato e sostenibile” e Obama è divenuto il “brand” di questa nuova visione del mondo. Il socialismo di Obama non è quello “hot”, quello tanto temuto che ha preso piede in Unione Sovietica o a Cuba, è piuttosto una sua forma più soft, un progressismo sociale che segue la falsariga delle democrazie scandinave o del Centro Europa. È un pensiero che trova una profonda corrispondenza nel fabianesimo tardo-vittoriano britannico, in una idea di socialismo progressivo alternativa al capitalismo del laissez-faire. Dai discepoli inglesi della Fabian Society, essenzialmente i laburisti di Tony Blair, il nuovo corso americano riprende l’idea della ridistribuzione della ricchezza (sostituita all’Ottocentesca ridistribuzione dei mezzi di produzione) e della “giustizia sociale”.
La culla del socialismo fu la Rivoluzione Francese ma il socialismo di oggi, nato dalla “Congiura degli Eguali” di Babeuf, con Lenin ha asserito la necessità dell’abolizione della proprietà privata, per poi assumere varie forme: lo scientismo materialista nel XIX secolo, il progressismo cristiano nel XX, la realtà dei Kibbutz israeliani e ancora più recentemente entrando nell’agenda politica mondiale sotto forma dell’Ambientalismo. Verdi fuori e rossi dentro.
Obama non ama definirsi socialista, nonostante ormai lo facciano tutti, avversari e sostenitori. Egli è più che altro un tecnocrate e un pragmatico. Al di là delle ideologie, gli interessa far funzionare quello che nel suo Paese non funziona. Potremmo definirlo un “neosocialista”. Come il neoconservatorismo dei primordi, infatti, il neosocialismo di Obama tenta un approccio diverso alla politica interna, pone una grande fiducia nelle istituzioni non-governative (famiglia e società civile), cerca di sfruttare la ricchezza che deriva dal mercato per aumentare le misure di welfare e la giustizia sociale. Per Obama ogni passo avanti nella sua azione di governo è un “critical first step”, una sfida rischiosa ma anche uno scarto con le idee ormai anacronistiche di Reagan e l’eredità terribile e scomoda di Bush. Dai cambiamenti climatici alla tutela della salute, dai nuovi lavori verdi alla retorica contro gli squali di Wall Street, Obama può essere veramente definito il primo Presidente socialista degli Usa, nel senso che questa parola può avere in America.
(Maria Teresa Le Noci è uno dei ricercatori di Questioni di Frontiera)