Questioni di Frontiera
di Silvia Buffo*. La storia della letteratura italiana non è fatta solo di grandi classici. Molte volte ci si dimentica di quegli autori che con le loro storie minori hanno raccontato aspetti “laterali” dell’esistenza e della storia del nostro Paese. Sono le scritture di provincia, per nulla artefatte, a volte grottesche ma in cambio autentiche. La provincia intesa come una “esperienza memorabile”, come ha scritto una volta il critico Generoso Picone. E’ un vero e proprio “contro-gusto” rispetto ai canoni della letteratura tradizionale, e non dovrà sorprenderci di rintracciarlo nei testi che appartengono al Canone della nostra storia letteraria, tra la fine del XIX e il XX secolo.
In seguito, questa dissonante passione per la provincia si è sposata con la controcultura degli anni Sessanta e Settanta, fino agli Ottanta, lungo quel periodo che vede esaurire definitivamente gli strascichi del neorealismo, divampare per poi spegnersi le sperimentazioni neoavanguardistiche, e indebolirsi la passione ideologica. Il “disimpegno” di molti scrittori italiani degli ultimi decenni amplia il margine d’azione narrativo che dal centro porta verso la periferia e la provincia. Ed è in questo passaggio che vengono raccontate storie di ribellione e libertà, anche piccole e marginali, ma rappresentative di un mondo popolato da quelli che chiameremo i “non-protagonisti”.
Della provincia, a guardare fuori dai patri lidi, ne sanno qualcosa Jack Kerouac e Allen Ginsberg, i maestri del “beat” americano, “provinciali” per quei racconti talvolta ossessionati dalla tradizione e dalle consuetudini dell’America profonda; quei ritratti caleidoscopici e trasognati, fedeli al gusto della letteratura da strada, ai diari di bordo, alle memorie underground. E’ un “genere” letterario che superando l’Atlantico si ritrova anche in Italia, soprattutto nella narrativa degli anni Ottanta. Generazioni di “spostati”, malinconici e annoiati, animano le pagine di scrittori come Pier Vittorio Tondelli.
La letteratura di provincia può anche essere intesa come una “topografia reale e interiore”, un viaggio verso le zone periferiche del sé, qualcosa di strettamente legato al passato e alle radici di chi scrive, come emerge nel Tondelli di “Camere separate”, per nulla ordinaria storia d’amore dove a prevalere sono gli occhi del provinciale più che del ribelle. Lo scrittore dopo aver girovagato a lungo per l’Europa, dopo essere fuggito dalle sue origini, torna a casa dove ritrova i luoghi della sua infanzia e della sua travagliata giovinezza. Con immagini di grande semplicità e dolcezza, ricorda come la madre e le sorelle si preparavano per la messa, tra rifiuto e identificazione, nostalgia e abbandono, sentimenti contrastanti che emergono ora in modo conscio ora inconsciamente nelle pagine dello scrittore di Correggio. E cos’è la provincia se non adorazione e odio?
Provando a spingerci all’indietro nel tempo, in quelli che, tecnicamente, vengono definiti “ipotesti”, è possibile rintracciare i germi di questo controgusto nel Canone italiano fra XIX e XX secolo: nelle realistiche rappresentazioni di Verga, o in un più disinibito Manzoni che con i Promessi Sposi mette per la prima volta al centro del romanzo italiano l’amore e le disavventure di due contadini, lontanissimi dalle descrizioni veriste che seguiranno, da quell’ approccio netto, coerente e senza fronzoli alla Storia, con cui il neorealismo ha ritratto la provincia italiana. Verga e Capuana con la Sicilia, Grazia Deledda con la sua Sardegna, Giuseppe Di Giacomo e Matilde Serao con la città di Napoli. Dopo le narrazioni di Manzoni, questi autori si nascondono dietro l’arma dell’“obiettività”, cercando di eclissarsi, di annullare la prima persona, per far parlare le storie e i loro personaggi.
Se la provincia dei Veristi è solenne e impeccabile, tutt’altra inquadratura è quella offerta dalla nostra letteratura contemporanea, con i suoi aspetti più crudi e morbosi, vividi e a volte spietati. Come l’aspro ritratto offerto da Corrado Alvaro dei pastori calabresi, i “non protagonisti” di “Gente di Aspromonte” – una raccolta di racconti che – più che il tentativo di un romanzo antropologico o etnografico – sembrano fatti di sentimenti “crudi”, come crude appaiono le radici di chi scrive.
Ne sanno qualcosa altri coevi come Anna Maria Ortese – in quel capolavoro struggente che è “Il mare non bagna Napoli” (il titolo dice già tanto, quasi tutto) –, o Federigo Tozzi, talento castrato da una morte prematura e dominato dalla mastodontica figura del padre, figura attorno a cui si sviluppa kafkianamente la sua esigenza di narrazione, connettendo la marginalità del provinciale agli strumenti della indagine psicanalitica.
E’ interessante cogliere la differenza narrativa fra questi due autori. Il libro della Ortese è una ricerca che trascende il letterario per farsi “cordone ombelicale” con la periferia, un viaggio dalle zone esterne ed estreme della società nei meandri della propria combattuta personalità. Provincia, periferia e interiorità sono mondi adiacenti, vasi comunicanti, ognuno con il suo radicalismo e le sue estremità. Il Mezzogiorno della Ortese non è espressione dello “standard poetico napoletano”, del sole che illumina paesaggi spogli ma tutto sommato godibili. Niente di tutto ciò: la provincia è sofferenza, come si evince dalla storia della più autentica tra i suoi “antiprotagonisti”, una bambina cieca che desiderava tanto un paio di occhiali. “Un giorno ne aveva provati un paio in un ottico di via Roma,” scrive la Ortese, “scoprendo così la bellezza del mondo”. La bambina può finalmente guardarsi intorno, specchiandosi in tutti i colori del mondo. “Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia”. Il mondo di colpo le fa un’impressione orribile, come in una sorta di risveglio buddista: foglie di cavolo, rifiuti dei mercati, uomini deformi buttati nella miseria e nella rassegnazione, desolazione. Alla vista della realtà la bambina sta male fino a vomitare, tanto da rinunciare agli occhiali. Quell’oggetto tanto agognato è la fine di ogni desiderio: meglio la miopia del sogno che almeno rendeva le cose desiderabili e perfino belle, sembra il suggerimento dell’autrice.
Il problema della “vista” torna anche in Tozzi, colpito da una malattia agli occhi che lo costrinse a vivere al buio per molto tempo. Una volta guarito, lo scrittore trovò grandi difficoltà a uscire dalla sua camera e a riprendere a guardare la vita. Da qui nasce il disagio di “Con gli occhi chiusi”, la difficoltà di osservare la realtà esterna, un mondo dominato dall’inganno e dal dolore, sopraffatta dagli istinti negativi, dal male. Lo scrittore senese è ossessionato dagli sguardi cattivi della gente e questo realismo non ha nulla di cinico o impersonale se mai è una totalizzante partecipazione al dramma e ai fallimenti dei suoi personaggi.
Nella letteratura italiana però non mancano luoghi e pagine in cui la provincia appare ironica, ludica e dissacrante. Pensiamo ancora ad Alessandro Manzoni, a Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, antiprotagonisti per eccellenza. La provincia manzoniana non è solo il celeberrimo “Addio ai monti”, uno slancio sentimentalistico ma in fin dei conti sincero verso la propria terra, ma anche un elemento che vivifica l’intero tessuto narrativo – come nella divertentissima “notte degli imbrogli”. La provincia manzoniana è colorata: dal pretaccio bonario e la sua perpetua a quegli smargiassi dei bravi; è una provincia in movimento, agrodolce, a volte cupa.
E visto che ormai procediamo un po’ “random”, saltando indietro e in avanti nel tempo, è doveroso citare Pier Paolo Pasolini, la vita violenta dei ragazzi romani nel dopoguerra, la loro irresponsabile sfida verso il mondo, smaniosi di brutalità, bestialità ed eccesso. Un mondo quotidiano fatto di bravate inutili, marcato dalla trasgressione, dalla sovversione verso le regole di una società a cui i ragazzi sentono di non appartenere. Come avviene oggi nei vicoli napoletani di Scampia, una concentrazione di poesia e bestialità. E’ questa spietata dicotomia che caratterizza decisamente la letteratura di provincia.
(Silvia Buffo ha frequentato i Seminari di QF a Tor Vergata. Collabora con QF scrivendo di arte e letteratura)