Questioni di Frontiera
di Annalisa Marroni*. Lo scorso 28 e 29 marzo l’Università di Artuklu, presso la città di Mardin nella Turchia sud-orientale, ha ospitato un importante convegno dal titolo: “Mardin: dimora della pace”. L’incontro è stato organizzato dal Global Center for Renewal and Guidance insieme al Canopus Consulting, due associazioni islamiche, con sede nel Regno Unito, impegnate da anni a migliorare la reciproca comprensione tra musulmani e non musulmani. Importanti studiosi, provenienti da tutto il mondo islamico, si sono riuniti per dare avvio ad una rielaborazione della tradizionale classificazione islamica dei territori in armonia con il quadro politico attuale. In un momento così delicato, in cui gli attriti e le incomprensioni tra musulmani e non musulmani sono molto forti, sia a causa delle attività terroristiche rivolte contro l’Occidente da alcune frange estremiste, come al Qaeda, ma anche a causa dell’inasprimento delle politiche europee nei confronti della presenza musulmana, questi studiosi hanno sentito la necessità di rileggere e discutere insieme, alla luce delle fonti musulmane, un documento controverso redatto da uno dei giuristi più famosi della tradizione musulmana. Il documento in questione è la cosiddetta “Fatwa di Mardin”del giurista medievale Ibn Taymiyya, spesso strumentalizzata da Osama Bin Laden nei suoi appelli ai musulmani a sostegno della chiamata al jihad contro gli Stati Uniti.
Ibn Taymiyya è un giurista e teologo siriano vissuto nel XIV secolo, appartenente alla scuola giuridica hanbalita, una delle quattro principali scuole giuridiche sunnite, caratterizzata da un’adesione più rigorosa alle fonti islamiche (Corano e Sunna). Egli visse durante l’invasione mongola, un’epoca molto difficile per i musulmani perché caratterizzata da efferatezze e soprusi, e fu più volte imprigionato a causa delle sue idee religiose. Ibn Taymiyya considerava il jihad contro i mongoli necessario e lo annoverava tra i pilastri dell’islam. I Mongoli, sebbene si fossero recentemente convertiti al sunnismo non erano, secondo lui, dei veri musulmani perché non governavano secondo le disposizioni della shari‘a. Era, inoltre, molto critico nei confronti dell’epoca in cui viveva: a suo avviso solo le prime tre generazioni dell’Islam costituivano il modello di vita da seguire.
Al suo pensiero si rifanno gran parte degli esponenti dell’islam radicale che, negli ultimi trent’anni, si sono impegnati a promuovere un’interpretazione più rigorosa della tradizione islamica in contrapposizione alla modernità di stampo occidentale. Il loro scopo è quello di ricreare, attraverso una nuova interpretazione del Corano e della Sunna, le condizioni idonee per un “ritorno” ai primi tempi dell’islam.
La “Fatwa di Mardin”, è un parere giuridico non vincolante emanato da uno dei più grandi giuristi e teologi dell’epoca per disciplinare il comportamento dei fedeli musulmani sotto il dominio mongolo nella città di Mardin. La giurisprudenza islamica classica divideva i territori del pianeta in due grandi aree: la Dar al-islam, l’insieme dei territori sottoposti all’autorità dei musulmani nei quali vigeva il diritto islamico, e la Dar al-harb, o dimora della guerra, comprendente i territori estranei alla Dar al-islam abitati da non-musulmani. Ibn Taymiyya nella sua classificazione della città di Mardin supera la classica interpretazione dicotomica dei territori in favore di una nuova tripartizione in: Dar al-islam, Dar al-kufr (miscredenti) e Dar al-‘ahd (patto). Resta la concezione del territorio islamico come una regione caratterizzata da pacifica convivenza ma i territori estranei non vengono più caratterizzati solo come territori della guerra: Ibn Taymiyya attua una distinzione molto importante tra le aree contro le quali i musulmani devono attuare il jihad perché governate da miscredenti e quei territori non islamici con cui i musulmani hanno, invece, stipulato degli accordi e con i quali vige una situazione di tregua.
Mentre i sostenitori dell’islam radicale hanno interpretato questa Fatwa in senso letterale, identificando il territorio dei miscredenti con gli Stati Uniti e l’Europa, gli studiosi presenti a Mardin hanno sottolineato l’inconsistenza di tale interpretazione. Alla luce del contesto storico attuale non è infatti possibile identificare l’Occidente come dimora dei miscredenti perché il mondo intero è regolato da trattati internazionali che disciplinano i rapporti tra gli Stati garantendo stabilità e giustizia.
La stessa Shari‘a ha invitato i musulmani a privilegiare questo approccio come dimostra la stipula della Costituzione di Medina nel 622 d.C., il primo trattato internazionale realizzato nella storia. La chiamata al jihad inoltre non è una decisione che spetta ai singoli individui o alle organizzazioni di musulmani, si tratta di una decisione politica riservata nella Shari‘a solo ai capi di Stato e permessa solo per resistere e difendersi da un’aggressione.
A conclusione dei lavori gli studiosi presenti hanno sostenuto all’unanimità che la Fatwa di Mardin era stata usata da Ibn Taymiyya per disciplinare un caso specifico e che, quindi, nessuna interpretazione letterale della Fatwa può essere valida ai giorni nostri. Hanno, inoltre, sentito la necessità di promuovere nuovi incontri per avviare una riflessione sul messaggio di pace islamico, di sostenere e incentivare lo studio accademico dell’islam al fine di evitare possibili strumentalizzazioni del messaggio coranico e di impegnarsi nel rivedere e rivalutare la figura di Ibn Taymiyya.
*Annalisa Marroni è una delle ricercatrici dei Seminari di Questioni di Frontiera