Questioni di Frontiera
Pubblichiamo il diario dei seminari di QF a Tor Vergata, insieme con i migliori articoli degli studenti. Gli articoli sono relativi alle lezioni su Giornalismo e Islam, ma ci sono anche spunti interessanti sul discorso di Obama al Cairo e alcune valutazioni analitiche sul primo anno dell’amministrazione USA. Insomma, una palestra utile per il web journalism applicato ai temi dell’attualità, tra geopolitica e storia sociale della cultura, tra Occidente e Islam. Attenzione ai titoli e alla scrittura breve…
Le prime lezioni dei Seminari di Tor Vergata ci rassicurano almeno su una cosa: le università italiane sono piene di studenti che pensano con la propria testa. L’importante è lasciarli fare, metterli alla prova, spingerli a prendere la parola e a dire la loro.
Nella prima lezione, il 13 febbraio scorso, abbiamo fissato le guidelines del nostro metodo, la genealogia, da applicare ai diversi indirizzi di ricerca che seguiremo in queste settimane. Abbiamo anche parlato del Sud, della memoria dimenticata, delle nostre tradizioni popolari e di identità locali che riemergono. Nella seconda lezione, invece, si è discusso – ancora – di orientalismo e di come la stampa occidentale guarda al mondo islamico (e viceversa). Poi, una lunga, attenta lettura collettiva del Discorso del Cairo del Presidente Obama, inframmezzata da spunti e riflessioni (le nostre, le vostre) sulla storia recente e il destino prossimo venturo degli Stati Uniti.
Nell’ultima lezione si è perfezionato il metodo di lettura e di ’smontaggio’ dei testi per svelare gli stereotipi (anche i nostri) che sorreggono le narrazioni sui rapporti tra Occidente e Islam e sul fenomeno dei neo-con. Con un’incursione nell’universo di Google, tra le censure, le dittature e i limiti della webcrazia, con l’impressione che anche il ‘testo’ della rete vada letto, decrittato e decostruito – direbbe Fortini – con il candore delle volpi e con l’astuzia delle colombe.
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Tor Vergata 2010 – Gli articoli
Nella “Map Room” con il Dalai Lama: la bizzarra diplomazia di Obama
di Alfredo Spalla
Change. Hope. People. Era il 4 Novembre del 2008, quando molte persone sentirono queste tre parole risuonare nell’aria. Tanti italiani, compreso il sottoscritto, rimasero svegli davanti alla televisione per seguire l’elezione di Barack Obama, percependo che qualcosa nel mondo stesse cambiando. L’entusiasmo per il 44esimo Presidente degli Usa si diffuse su scala globale, contagiando media e cittadini in ogni angolo d’Europa.
A poco più di due anni da quel giorno la presidenza di Obama ha assunto altre caratteristiche. A volte ha saputo confermarsi, altre volte ha deluso. Per avere una visione aggiornata e completa dell’argomento ho deciso di soffermarmi sugli episodi d’attualità, utilizzando come strumento d’analisi alcuni quotidiani britannici, notoriamente poco inclini al pensiero democratico. La notizia presa in esame è la visita del Dalai Lama alla Casa Bianca.
Il 18 febbraio del 2010 il Presidente degli Stati Uniti riceve il leader spirituale buddista, disattendendo così il monito lanciato dalla Cina, che aveva caldamente sconsigliato l’incontro fra i due premi Nobel per la Pace. Obama, ignora il tutto e concede un’ora di colloquio al Dalai Lama, ospitandolo nella “Map Room” e non nello “Studio Ovale” (formalità riservata ai capi di stato esteri). I due non parlano di politica, ma di diritti umanitari, pace nel mondo e identità religiosa. Un incontro definito da Ewen MacAskill del Guardian “low profile”; non sono ammessi fotografi e giornalisti e anche i contenuti del colloquio rimangono piuttosto oscuri.
Nello stesso articolo, apparso sul sito del quotidiano inglese il 18 febbraio, il giornalista inglese non tace l’approccio avuto in passato da Obama nei riguardi del capo spirituale tibetano: “The Tibetan leader visited the US twice last year but Obama refused to see him, explaining that he first wanted to visit China, which he did in November”.
Notiamo perciò come le prime intenzioni di Barack Obama siano concilianti nei confronti del governo di Pechino. A Novembre effettua la sua visita in Cina, ma a Febbraio sfiora, anzi crea un caso diplomatico. La Repubblica Popolare non gradisce, proprio come riporta il Daily Telegraph in un articolo del 18 febbraio: “China has condemned President Barack Obama’s meeting with the Dalai Lama at the White House as a “gross violation” of international relations and called for the United States to “stop conniving and supporting anti-Chinese forces”. Il governo asiatico convoca l’ambasciatore statunitense, presentando una protesta ufficiale dichiarandosi “insoddisfatta” dell’incontro. Un errore anche secondo Steve Clemons della Washington’s New America Foundation: “I would want him to meet him but this is the wrong time, with a stack-up of issues. I think it is a mistake”.
Profondamente critico anche il Daily Mail del 18 febbraio, che innanzitutto attacca il presidente degli Usa per aver riservato al Dalai Lama un’uscita non propriamente consona a un capo spirituale. Il Dalai Lama uscendo passa fra l’immondizia della Casa Bianca. Un dettaglio che non sfugge al quotidiano: “Obama defies China by meeting Dalai Lama (but makes him leave via rubbish bags at side exit)”. Certo, solamente un dettaglio, ma dai dettagli si capiscono molte cose. L’episodio dimostra poca attenzione da parte dello staff del presidente. Sommario e sicuramente poco diplomatico anche il commento di Robert Gibbs, portavoce della presidenza, sulla reazione di Pechino: “Chinese officials have known about this and their reaction is their reaction.”
Con quale superficialità si può affermare che la reazione cinese riguardi solamente la Cina ? Queste parole denotano una mancanza di tatto politico, che un portavoce dovrebbe dimostrare d’avere. Il Daily Telegraph non ignora nemmeno le possibile conseguenze dell’accaduto: “The visit could complicate Washington’s efforts to secure China’s help on key issues such as imposing tougher sanctions on Iran, resolving the North Korean nuclear standoff and forging a new global accord on climate change. Diplomats already expect that China’s President Hu Jintao will not attend a nuclear summit in Washington this April, however a much more serious step would be to cancel a state visit to America planned for November”.
Secondo una mia personale opinione, in questa occasione l’amministrazione Obama ha dimostrato una scarsa lungimiranza. Non dimentichiamo che la Cina è una potenza in continua crescita economica, che ha e avrà un notevole peso internazionale. Sottovalutarla o bistrattarla è un grave errore sia diplomatico che politico. Sacrificare equilibri internazionali o le sorti dei mercati, in nome di un incontro “low profile”, non è una mossa accorta. Gli Stati Uniti, e dunque il loro presidente, dovrebbero cominciare a pensare alla Cina come ad un paese paritario e non inferiore, perché forse un giorno gli equilibri potrebbero rovesciarsi e forse avere Pechino come alleato non sarebbe poi un gran danno.
Inoltre, Obama nell’incontro con il Dalai Lama si è comportato con sufficienza. Prima ha dato ascolto alla Cina, poi ne ha ignorato le richieste, infine ha ospitato il leader tibetano senza troppe formalità, dimostrando un minimo di sudditanza verso Pechino. Salvo poi recriminare sull’ingerenza asiatica.
Il clima, la questione iraniana, Taiwan, il commercio internazionale non sono elementi da gestire con superficialità. Una crisi diplomatica con la Repubblica Popolare era l’ultima cosa di cui avevano bisogno in America. Impegnare sul fronte estero un governo già attivo sul fronte nazionale, implica un dispendio inutile d’energie e uomini. Ritengo, quindi, che questo fatto d’attualità sia esplicativo di una serie di fattori e più in generale della politica di Obama. Spesso contagiato da uno staff stantio e da decisioni figlie del compromesso, il presidente degli Usa sta dimenticando ciò che aveva promesso al mondo. Una speranza di cambiamento alle persone. Parafrasando una canzone dei Quanta Ladeira, un gruppo brasiliano, sarcasticamente chiuderei dicendo che: “Ta todo mundo confiando em Obama se Obama fizer mxxda fudeu….”
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L’amministrazione Obama e la gestione della crisi
di Miriam Marinaccio
Le generose aspettative dell’opinione pubblica democratica sulla rinascita del sogno americano e le speranze dei pacifisti su un appeasement delle tensioni politiche e militari del (dis)ordine mondiale sembrano essere evaporate insieme ai dollari della più grande crisi finanziaria vissuta dai tempi della Grande Depressione.
La vittoria del presidente nero resta epocale e sintomatica di una profonda volontà di cambiamento. Nell’attuale sistema multipolare del disequilibrio del post guerra fredda, l’indebolita gemonia americana prova a fatica a risolvere dubbi e incognite economiche, militari e politiche. Le finanze pubbliche sono sempre più di proprietà cinese. La crisi finanziaria ha fatto esplodere il debito per il sostegno pubblico alle banche e per i piani di risanamento industriale, mentre la disoccupazione continua a restare su livelli a due cifre.
I conflitti in Iraq e in Afghanistan, ricevuti in eredità dalla presidenza Bush, hanno svelato crudelmente la complessità dei moderni scenari bellici e il fallimento degli interventi militari unilaterali. La ricerca di nuovi sentieri diplomatici e di strategie di controllo delle tensioni internazionali legate alla sicurezza energetica e alla diffusione del rischio nucleare non può essere rimandata.
Le operazioni antiterroristiche della NATO non sono riuscite a scongiurare gli attentati alle Ambasciate e alla sede Onu di Kabul, e ancor meno a proteggere la popolazione civile afghana. La ricerca di interlocutori credibili tra i Taliban appare per il momento solo un’ipotesi teorica, sebbene il ritiro delle truppe è già stato previsto per l’estate del 2011.
L’incognita nucleare iraniana si inserisce nel complesso scenario medio-orientale. I negoziati con Ahkmadinejad non hanno portato fino a questo momento a nessuna intesa concreta. L’instabilità del regime complica il rebus diplomatico. L’ormai datato fallimento della Road map palestinese e la politica degli insediamenti di Natanyahu hanno creato un pericoloso stallo nelle relazioni israelo-palestinesi, che continua ad un anno dalla guerra di Gaza. Il freddo distacco tra l’amministrazione Obama e la destra israeliana al potere rischia di intralciare irrimediabilmente l’ accordo con Teheran. Le invettive del presidente iraniano volte a negare la legittimità dello Stato ebraico rischiano di scatenare la reazione armata di Israele e di mettere irrimediabilmente fine ad ogni trattativa sull’arricchimento dell’uranio a soli scopi civili.
Le battaglie politiche con cui la presidenza Obama si è sforzata di confrontarsi sono molteplici, e questo è valso al neo presidente un Nobel per la Pace “alle intenzioni” e alle manifestazioni di buona volontà. L’impegno ideale accompagnato dal senso di responsabilità con cui Obama ha cercato di districarsi tra le intricate vicende internazionali è stato ripagato dal riavvicinamento con la Russia a seguito dell’abbandono del progetto di difesa antimissilistica in Europa centrale, dai tentativi di dialogo con Teheran, dallo sviluppo delle relazioni politico-diplomatiche con la Cina. L’indecisione sull’Afghanistan, i tentennamenti sulla chiusura della prigione di Guantanamo, il blocco della legge sul clima in Senato lasciano dubbi sull’ orientamento strategico e sull’effettiva capacità di leadership mondiale del neo presidente.
In politica interna il presidente Obama affronta forse la sfida più difficile. La posta in gioco nella battaglia per la riforma sanitaria è alta. Il pacchetto di leggi discusse al senato è ambizioso, la copertura sanitaria riguarderebbe infatti oltre trenta milioni di americani che ne sono attualmente sprovvisti. Pervenire ad un accordo con la Camera e raggiungere questo storico traguardo ridarebbe fiducia e impulso all’amministrazione.
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La retorica e il cambiamento nel discorso di Obama al Cairo
di Carlo Scopa
Oramai è trascorso più di un anno dall’elezione di Barack Obama: il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti, il “presidente del cambiamento”. Proprio su queste due definizioni Obama ha impostato vittoriosamente la campagna elettorale presidenziale 2008.
Il primo punto della campagna è stato giocato attraverso un politica post-razziale, ritenendo inopportuno e controproducente, dal punto di vista elettorale, riproporre i temi della discriminazione razziale. Ricordiamo che Obama, proveniente da una famiglia della classe media bianca, non ha avuto esperienza della vita nei ghetti delle città del Nord e del movimento per i diritti civili, esperienza che invece ha vissuto sua moglie Michelle.
La seconda parte della campagna elettorale si è incentrata sul cambiamento. Cambiamento rispetto all’aggressiva politica estera dominante negli otto anni di presidenza George W. Bush. Nel concreto il programma elettorale proposto dal Democratic Party prevedeva il ritiro delle truppe dall’Iraq e una riduzione delle forze impegnate in Afghanistan. Progetti che fino ad ora sono stati disattesi, nonché ampliamente smentiti, visto l’ennesimo invio di truppe in Afghanistan.
L’ampliamento del contingente americano, con relativa richiesta di 10.000 unità alla NATO, è stato annunciato pochi giorni dopo il conferimento a Obama del Premio Nobel per la Pace. Questi due avvenimenti sembrano in aperta contraddizione, e forse lo sono. Infatti tale conferimento è stato oggetto di critiche da parte di molti studiosi e giornalisti. Tuttavia pare in perfetta coerenza se andiamo a vedere le motivazioni del premio: gli impegni nel «rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Impegni perseguiti da Obama fin dall’inizio della sua presidenza e che hanno trovato una loro summa nel recente discorso del Cairo.
Già nelle prime parti del discorso possiamo individuare il cuore del discorso: la fine della contrapposizione America-Islam, la ricerca di un nuovo inizio – il “cambiamento” – fra gli USA e i popoli musulmani, visto che condividono gli stessi principi.
Esposto il principio della “collaborazione tra i popoli”, Obama ha iniziato a giocare a carte scoperte, trattando progressivamente i temi fondamentali del rapporto col Medio Oriente: la lotta agli estremismi violenti – da notare che tutte le volte che l’oratore ha utilizzato il termine estremismo lo ha fatto sempre seguire dall’aggettivo violento o da suoi sinonimi; la situazione in Iraq e Afhanistan, la questione israelo-palestinese, la democrazia e la libertà religiosa, la condizione femminile.
Indubbia è l’importanza di tale discorso per i temi trattati, ma è fondamentale soffermarci sulla forma del discorso e sulle capacità oratorie di Obama, dovute soprattutto dalla sua personalità carismatica. Proprio questi elementi enfatizzano l’opinione (o il sospetto) che i punti fondamentali in politica estera di Obama possano rimanere solo parole e non si concretizzino de facto. Un corso che è stato già vissuto per altri aspetti da altri presidenti democratici come Franklin D. Roosevelt e John F. Kennedy.
Possiamo concludere che il primo anno della presidenza Obama, in politica estera, ha deluso le grandi aspettative del popolo americano – nonché dell’intero mondo. In politica interna Obama si è dovuto scontrare con la crisi, in parte tamponata ma non superata grazie all’aumento della spesa pubblica previsto nella finanziaria – politica fortemente osteggiata dai repubblicani di McCain ancora legati alla reaganomics. In aggiunta, buona parte della credibilità di Obama si giocherà sul tema della riforma sanitaria, un mostro che ha già divorato molti presidenti.
Si potrà misurare la portata di tale delusione già nelle elezioni del novembre 2010 per il rinnovo della Camera, o potremo assistere a un rinnovo della fiducia, da parte degli elettori americani, al Presidente del “cambiamento”.