Questioni di Frontiera
di Maria Teresa Lenoci*. Il 17 febbraio del 2003, lo scrittore americano Max Boot lancia un monito dalle colonne del Financial Times: America’s Destiny is to Police the World. Lo studioso di storia militare che non ama definirsi un “neoconservatore”, ma che lo è a tutti gli effetti, attacca: “A seguito dell’intransigenza dimostrata la scorsa settimana da Francia, Cina e Russia, è improbabile che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite passi una nuova risoluzione per autorizzare una guerra in Iraq. Ma anche se lo facesse, tutti si rendono conto che sarebbe solo una copertura di comodo per un’azione condotta dagli Stati Uniti. Se gli Usa non si fanno avanti, non accadrà nulla; neppure le ispezioni sulle armi. In altre parole, l’America è costretta ancora una volta a svolgere il ruolo del poliziotto globale”. Un’idea ripetuta più volte dall’autore in occasioni successive, “non c’è nessun altro (che può farlo) là fuori”.
Sulla paternità dell’uso del termine “globocop” da parte di Boot si possono nutrire dei dubbi. Nel 2003, per esempio, Franco Cardini pubblica una raccolta di saggi sull’11/9, La paura e l’arroganza, con contributi di Noam Chomsky, Eric Hobsbawm, l’Ayatollah Khamenei, tra gli altri. Tra questi spunta “11 settembre 2001″, il saggio del francese Alain de Benoist, che si attarda sul concetto di “guerra giusta” usato dagli americani per giustificare l’invasione americana dell’Afghanistan. Il teorico della “Nuova Destra”, scettico sulla globalizzazione e la politica imperialista americana, fa un esplicito riferimento agli Usa come “gendarme planetario”. Gli Stati Uniti rivendicano il diritto naturale di fare la guerra in qualunque parte del mondo, pur di difendere i propri interessi legittimi e i propri (ma anche gli altrui) diritti di libertà. A supporto di questa argomentazione De Benoist cita le “guerre umanitarie” in Nicaragua, El Salvador, Panama, Libia, Sudan, Afghanistan e Jugoslavia.
Ma torniamo a Boot. L’autore americano si chiede “il mondo ha davvero bisogno di un poliziotto?” Ovviamente sì, perché il mondo è come una enorme New York, solo molto più grande, e con una delinquenza molto più vasta e selvaggia. Se nessuno la contiene questa diventerà una delinquenza di massa. Ci sono le leggi internazionali, è vero, ma chi le fa rispettare? “Per oltre un secolo, i liberali idealisti hanno nutrito la speranza che qualche organizzazione internazionale avrebbe punito i malvagi. Ma la Lega delle Nazioni è stato un avvilente insuccesso, e le Nazioni Unite non sono da meno. È difficile prendere sul serio un organismo la cui commissione per i diritti umani è presieduta dalla Libia e la cui commissione per il disarmo sarà presto presieduta dall’Iraq. L’Onu è un utile forum di discussione, ma affermare che sia un’efficace forza di polizia è una burla, come ha dimostrato la sua incapacità di fermare gli spargimenti di sangue in Bosnia, in Ruanda e altrove”.
“La Nato è probabilmente la migliore alternativa multilaterale,” aggiunge, ma anche l’Alleanza rischia di fare il suo tempo, perché anche se è costituita da democrazie con un patrimonio storico e interessi comuni, è troppo ampia e impacciata, come ha dimostrato l’intervento in Kosovo. Chi resta allora? “La risposta è abbastanza ovvia. È il Paese con l’economia più dinamica, la più fervente devozione alla libertà e le forze armate più poderose”. L’America. A questo punto Boot fa un parallelismo tra la Gran Bretagna del XIX secolo e gli Usa nostrani. Come gli inglesi hanno combattuto per mantenere i mari aperti al commercio, perché erano l’unica potenza che allora potesse farlo, ora l’unica potenza in grado di avere un ruolo equivalente sono gli Usa.
“Gli scettici risponderanno che l’America ha un passato isolazionista e nessuna voglia di giocare a Globocop. Il parlamentare Jimmy Duncan, repubblicano del Tennessee, ha protestato: ‘È una posizione tradizionale dei conservatori non volere che gli Stati Uniti siano i poliziotti del mondo’, ma le dicerie sull’isolazionismo statunitense sono notevolmente esagerate. Fin dagli albori della repubblica, i commercianti, i missionari e i soldati americani sono penetrati negli angoli più remoti della Terra. L’America ha anche una lunga storia di azione militare all’estero. Nel 1904, il presidente Theodore Roosevelt ha dichiarato: “Gli illeciti cronici, o l’impotenza che comporta un allentamento dei legami della società civilizzata, potrebbero infine richiedere l’intervento di una nazione civilizzata; e nell’emisfero occidentale l’adesione degli Stati Uniti alla Dottrina di Monroe potrebbe costringerli, sebbene controvoglia, a esercitare una forza di polizia internazionale in casi flagranti di tali illeciti o impotenza”.
Insomma un’idea antica, quella del poliziotto internazionale. Stando a Roosevelt gli Usa hanno il dovere di fermare gli illeciti per la semplice ragione che non lo farà nessun altro e che non può farlo nessun altro, così come è già successo in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Questa è stata la giustificazione per aprire un nuovo conflitto in Iraq, dopo gli errori e le bugie sulle armi di distruzione di massa e i presunti link fra il rais di Baghdad e Al Qaeda. “Sfortunatamente, il lavoro di un poliziotto non finisce mai. Anche quando ci saremo liberati del signor Hussein, altre tirannie, come la Corea del Nord e l’Iran, continueranno a minacciare la pace mondiale. Affrontarle tutte è un grosso impegno, ma come Kipling ha consigliato all’America, ‘per niente di meno osereste abbassarvi’ ”. Citare Kipling, lo scrittore imperialista per eccellenza, la dice lunga su questa strategia. Ma è soprattutto una anticipazione dei tempi che stiamo vivendo.
Maria Teresa Lenoci è uno dei ricercatori di QF. Ha partecipato ai Seminari di Bari 2010.